“Sembra che la nostra vita sia migliore quando possiamo porla nella memoria degli altri. È una nuova vita che abbiamo acquisito e che ci risulta preziosa.” Montesquieu
Le storie, la loro memoria e la loro conservazione sono un elemento necessario nella vita delle nostre comunità. Senza una memoria e una storia condivisa non ci possono essere dei valori comuni in grado di guidare la nostra vita insieme.
Per i medesimi motivi anche ogni attività di fundraising non può fare a meno delle storie… Storie dei beneficiari, dei volontari, di chi si impegna ogni giorno a rendere le nostre comunità dei luoghi più felici e accoglienti.
A Pieve Santo Stefano, nelle colline tra la Toscana e l’Umbria vi è l’Archivio dei diari, un luogo speciale e quasi magico, che conserva la nostra memoria, sotto forma di storie, le più diverse e sorprendenti, che tutte assieme raccontano qualcosa di noi, del nostro paese, formano la nostra memoria condivisa.
Da poche settimane l’Archivio dei diari ospita anche le 5 edizioni dei Libretti rossi di Fundraiserperpassione, i quali raccolgono le storie di impegno quotidiano dei Fundraiser. Abbiamo quindi intervistato Loretta Veri, per farci raccontare la sua esperienza di Responsabile Fundraising dell’Archivio e per immergerci ancora più a fondo nella magia delle storie che vengono qui conservate.
Ci puoi presentare in breve l’Archivio dei diari e la storia della sua fondazione a Pieve Santo Stefano?
L’Archivio dei diari è una fondazione culturale che si occupa dal 1984 di raccogliere, conservare e valorizzare la memoria degli italiani in forma di scrittura. La nascita a Pieve Santo Stefano, un paesino della provincia di Arezzo che conta appena 3.000 abitanti, è casuale. Il giornalista e scrittore Saverio Tutino già frequentava la Valtiberina quando coltivava il sogno di creare un luogo che potesse raccontare la Storia d’Italia – quella con la S maiuscola – attraverso le storie delle persone comuni. Pieve ha accolto la sua richiesta di una stanza dove poter depositare diari, autobiografie, raccolte di lettere. Adesso non basta più un palazzo per ospitare gli oltre 9.000 racconti di vita vera arrivati a Pieve da ogni parte d’Italia e non solo.
L’Archivio raccoglie storie di vite più o meno comuni, più o meno speciali: perché sono importanti da conservare?
Ogni persona che passa su questa terra lascia una traccia di sé, in quello che ha fatto, nel ricordo di chi l’ha amata. Questo luogo conserva le tracce scritte del nostro passaggio. È un monumento di memoria collettiva. Potrei raccontare tanti episodi che confermano quanto sia importante per le persone sapere dell’esistenza di un luogo che si prenderà cura per sempre di quello che hanno lasciato scritto del racconto della propria esistenza. È consolatorio sapere che la tua memoria ti sopravviverà da qualche parte in uno scaffale di un Archivio che non è un posto polveroso, ma un luogo dove le storie di vita di notte possono parlare fra loro, scambiarsi i racconti e conoscersi meglio.
Quando Saverio Tutino ha creato l’Archivio voleva “dare voce a chi non ce l’ha” e sono tante le storie di persone semi-analfabete che si sono impossessate della scrittura per scrivere di sé producendo in alcuni casi autentici capolavori come Terra matta di Vincenzo Rabito.
Da qualche anno l’archivio ha coniugato questo desiderio del suo fondatore occupandosi di raccogliere le memorie dei migranti che raggiungono il nostro paese dopo aver traversato ogni genere di dolore per scappare dalla propria terra. Sono queste, oggi, le persone alle quali dare voce. E a Pieve li si ascolta tutti, uno ad uno, per salvarli dalle contabilità dei numeri che vogliono renderli anonimi.
Quale è il tuo ruolo all’interno dell’Archivio?
Sono in Archivio dal 1987, inizialmente come volontaria, poi 20 anni come direttrice organizzativa. Dal 2010 sono responsabile del fundraising e mi occupo anche della gestione organizzativa e amministrativa del Piccolo museo del diario, un’idea nata otto anni fa per mostrare come le storie delle persone possono trasformarsi in un percorso di memoria interattivo e multimediale. Il museo è la perfetta sintesi di quello che si vive in Archivio ogni anno all’arrivo di nuovi diari e nuove memorie in termini di emozione. È un luogo che lascia il segno in chi lo visita perché non è solo un museo, è un incontro con persone e storie, ma è anche un fare i conti con se stessi e con il proprio percorso di vita. La memoria è un fatto collettivo.
Essere responsabile del fundraising è un grande privilegio. Lavoro in un team motivato che si articola in chi si occupa del rapporto con i donatori e in chi sviluppa progetti. Al nostro fundraising abbiamo dato il nome di attivalamemoria.
Quanto sono importanti le storie delle persone custodite nei diari per il tuo lavoro di Fundraiser?
Sono essenziali. Una fonte di ispirazione continua, una spinta costante a condividere le emozioni che le storie suscitano. Non puoi avere per le mani un oggetto come il Lenzuolo di Clelia Marchi e non avere il desiderio che tutti possano vederlo. Su quel lenzuolo una contadina con la seconda elementare ha scritto con il pennarello fitte righe che compongono la trama del suo dolore. Il marito Anteo, amatissimo, muore e Clelia scrive perché le lenzuola non può più consumarle con lui.
Nel museo apri un cassetto e scopri la storia di un giovane partigiano 17enne che dal carcere di via Tasso, nel 1944, riesce a spedire alla madre dei piccoli frammenti di carta dove sogna un futuro di pace e di studio. Morirà trucidato alle Fosse Ardeatine pochi giorni dopo aver scritto queste parole “l’alba del mio 18esimo anno di vita la ho passata in carcere morendo di fame”. Parole scolpite che parlano di lui dopo 77 anni.
Sono le emozioni e le relazioni alla base del lavoro di fundraising. Questo è un luogo magico per emozionarsi e condividere.
Chi sono i vostri donatori tipo? Perché decidono di sostenere l’Archivio?
C’è identificazione con la causa in chi pensa che occuparsi della memoria sia un modo per traghettare il passato nel futuro o in chi crede che l’Italia sia un paese senza memoria e che un’iniziativa del genere sia preziosa come presidio. C’è chi ha depositato qui la sua storia e ha toccato con mano cosa significa prendersene cura, in termini di conservazione e valorizzazione. Ci sono persone che hanno nell’Archivio scritti personali dei loro cari.
Ci sono donatori che lo sono diventati dopo essere stati utilizzatori dell’Archivio, per ricerche, studi, per finalità artistiche. In questa miniera di storie hanno trovato ispirazione tantissimi professionisti anche noti del mondo del cinema, del teatro, della radio, della televisione.
Ci sono le persone che, pur non avendo depositato un diario o usato il fondo dell’Archivio per ragioni professionali, hanno assistito almeno una volta – quando non ne diventano frequentatori seriali – al Premio Pieve, l’evento annuale che si svolge per decretare ogni anno il miglior diario, in un concorso che è solo il pretesto per mantenere viva l’attenzione tutto l’anno e creare meccanismi di lettura che sono rivoluzionari. Basti pensare che in un luogo piuttosto decentrato per otto mesi l’anno una dozzina di persone si incontra ogni settimana di sera per parlare delle storie di vita di sconosciuti. Adesso lo fanno attraverso piattaforme online ma non è la stessa cosa.
Molti dei membri del Cda, del personale e dei collaboratori, dei volontari del Premio Pieve sono anche donatori e non solo di tempo.
Ultimamente però abbiamo aggiunto un nuovo profilo ai donatori dell’Archivio: sono i visitatori del museo, quelli che si sono emozionati fino alle lacrime davanti al Lenzuolo di Clelia o aprendo un cassetto e scoprendo una delle nostre storie. Donano con slancio per l’emozione che hanno provato e che si portano a casa come un ricordo prezioso che perdura.
Ci puoi raccontare una storia alla quale sei particolarmente affezionata tra quelle conservate nell’Archivio?
Difficile sceglierne solo una. Ma la storia di Luisa, per tante ragioni, mi è molto cara. Lei è una casalinga di un paesino della provincia di Latina, scrive il diario per non impazzire, per avere un amico, dopo che ha scoperto che “la delusione è stata cocente sul fatto che un marito può anche non essere capace di essere amico della moglie”. Il marito è uno dei tanti orchi ai quali le cronache ci abituano. Violento, possessivo, carceriere. Isola Luisa in una casa a due piani, in campagna, con due figli da accudire, l’orto, gli animali nel pollaio e nella stalla. Lei può andare a messa e, sola in casa, guarda la TV, legge il giornale e scrive il diario al quale confida violenze e dolore ma anche pensieri critici su quel che legge e vede alla televisione. Costretta a nascondere il suo “caro quaderno” ogni volta per il terrore che il marito lo scopra, Luisa finisce con affidarlo al parroco che lo manda a Pieve perché su Famiglia Cristina ha letto un appello su questo luogo dove si conservano documenti privati. La commissione di lettura si appassiona alla storia di Luisa e la sceglie per la finale, la giuria nazionale vuol premiarlo anche per aiutare Luisa a liberarsi dalla sua prigione. In quella riunione io c’ero e prendevo appunti. Era il 7 settembre 1990. Tutti i giurati votano per Luisa ma alla fine Saverio Tutino esprime dei dubbi sull’opportunità di premiarla senza chiedere a lei il permesso. Luisa ha firmato un modulo, la giuria potrebbe procedere ma Tutino ha ragione ad avere dubbi. Sono io che chiamo Luisa a casa. Per nessuna ragione può farlo un uomo, con il rischio che il marito risponda. Io posso dire di essere un’amica della figlia. Mi risponde proprio la figlia di Luisa e mi dice che la madre non c’è, è a Messa. Succede dunque una cosa inedita. La riunione della giuria viene sospesa, in attesa che a trecento chilometri di distanza il parroco che ci aveva mandato il diario finisca di celebrare la Messa. Tutino dopo una mezz’ora chiama il parroco e lui manda a chiamare Luisa. Ma quando lei capisce che il premio consiste nella pubblicazione e che i giornali ne parleranno, scoprendo chi è lei e chi è l’orco che la tiene prigioniera, ha paura e ci chiede di dimenticarla.
La discussione in giuria continua in modo animato. La tentazione di premiarla comunque c’è, qualcuno pensa che potrebbe essere proprio il nostro premio a salvarla, ma alla fine è Natalia Ginzburg a decretare che non possiamo usarle altra violenza e dobbiamo rispettare il suo volere. Il diario di Luisa non sarà premiato e, anzi, non se ne parlerà proprio nell’evento pubblico del giorno dopo. Il Premio Pieve 1990 viene suddiviso ex aequo fra l’appassionante storia di emigrazione verso l’America scritta dal siciliano Tommaso Bordonaro e le strazianti lettere che Natalia Berla manda alla madre e al fratello da San Patrignano. Il diario di Luisa sigillato ed escluso a qualsiasi forma di consultazione.
Quattro anni più tardi ricevo in Archivio una telefonata: “sono Luisa, sono scappata di casa e mi vengo a prendere il Premio Pieve”.
Adesso questa storia è uno dei cassetti più amati nel Piccolo museo del diario, un libro edito da Terre di mezzo, un documentario prodotto da Nanni Moretti per “I diari della Sacher”. A ogni visitatore raccontiamo anche la storia del diario, di come è arrivato a Pieve, della rivincita di Luisa che poteva diventare l’ennesima vittima della violenza di un uomo verso una donna, ma che si è salvata dall’orco.
Non sono solo storie, ma persone in carne ed ossa, le cui anime vibrano.